Dieci anni fa la strage di Lampedusa. 368 migranti muoiono annegati a poche decine di metri dalla riva. La stragrande maggioranza di loro era di cittadinanza eritrea, in fuga dalla dittatura nel loro paese. Due anni dopo, il 18 aprile del 2015, in acque internazionali a sud di Lampedusa, un altro naufragio: 58 corpi senza vita recuperati. I dispersi, un numero impressionante: tra le 700 e le 900 persone. 21 aprile 2021: 130 persone muoiono annegate nel Canale di Sicilia per l’affondamento delle tre imbarcazioni su cui si trovavano. Sono solo alcune delle stragi che si sono susseguite nel corso di questi ultimi dieci anni. Secondo le agenzie dell’Onu che si occupano di migrazioni (Acnur, Oim, Unicef) dal 2013 ad oggi sono oltre 28 mila i morti nel Mediterraneo. Impressionante il fatto che non si riesca ad avere – e non si avrà mai – il numero preciso delle vittime, oltre che il loro nome. Cosa abbiamo imparato da quanto è successo in questi dieci anni? Cosa ha imparato la politica (fatte le debite distinzioni) da queste stragi e a cui resta legata da una responsabilità quanto meno oggettiva? La politica (fatte le debite distinzioni) ha imparato a non speculare più sui morti in mare? Ha imparato a non alimentare più la falsa paura dell’invasione? Da dove nasce tutta questa cattiveria? Chi ha trasformato il principio di solidarietà in un atto inutile di buonismo? E la migrazione in un crimine da reprimere? Pubblica ne ha parlato con il filosofo della politica Roberto Escobar e la psicologa sociale Chiara Volpato.
Napoli, 1943: ottant’anni fa il “lungo settembre” di Resistenza. Napoli è stata la città più bombardata in Italia dalle forze anglo-americane, dall’entrata in guerra di Mussolini, nel giugno del 1940. Quasi 25 mila i morti. Napoli è stata la prima città ad insorgere e a liberarsi dai nazisti occupanti e dai fascisti repubblichini. Oggi, 27 settembre, è la prima delle quattro giornate che portarono alla liberazione dall’occupazione nazifascista. Ma la resistenza napoletana cominciò nelle settimane precedenti, già all’indomani dell’armistizio dell’8 settembre, come ha raccontato a Pubblica la storica Gabriella Gribaudi, autrice di “Napoli in guerra. 1940-1943” (Bollati Boringhieri, 2023). Ospite della puntata di oggi anche Alfio Mastropaolo, professore emerito all’università di Torino, per presentare il suo ultimo libro “Fare la guerra con altri mezzi” (Il Mulino, 2023).
Troppo facile dire oggi, un po’ qualunquisticamente, che la politica ha fallito.
C’è una politica che ha vinto: è la politica renziana che ha vinto una battaglia (far fuori Conte) e che vuole vincere la guerra, e cioè affermare – ora che si decide un pezzo di futuro con i 209 miliardi del Recovery – un’opzione politica conservatrice, di destra molto semplicemente.
Un’opzione fatta di: centralità dell’impresa rispetto al lavoro; contenimento dello Stato rispetto al privato; priorità all’atlantismo rispetto al multilateralismo in politica estera; ordoliberalismo alla Merkel contro socialismo alla Sanders.
C’è poi una politica che ha perso, non da ora. È quella che in Italia non riesce a tenere insieme un “partito” che sia contro le disuguaglianze sociali e il cambiamento del clima che rubano il futuro; contro il potere crescente delle mafie e della corruzione che asfissiano il presente (da Corsico a Platì).
Da che parte sta Draghi?
Con la politica neo-liberale, che cerca di riscattarsi dai fallimenti del neoliberismo degli ultimi anni. Oggi anche in questa destra si accorgono che le disuguaglianze sociali sono un problema, perché alimentano i sovranismi razzisti e xenofobi alla Trump, sgraditi anche a loro.
Da che parte sta, allora, Draghi?
Bisogna chiederselo e darsi una risposta. Sta a destra, in quella destra.
Per semplificare: sta con Merkel, non con Sanders.
Solo così si capirà la scelta politica che Mattarella ha compiuto con Draghi (vediamo ora cosa succederà).
Ma come, Mattarella sceglie la destra?
Sì, sceglie quella destra perché sa che è ancora influente e capace di generare approvazione (l’onesto Draghi parla all’elite col suo curriculum e al popolo con la sua competenza, “è uno bravo”).
Non è la destra neoliberista reaganiana e thatcheriana d’altri tempi, ma quella “nuova” che tenta una riscossa riformatrice. Tracce di questo spirito riformatore si trovano nei documenti della confindustria americana sugli stakeholder, nelle dichiarazioni di esponenti di Fmi, Ocse, e sulla stampa mainstream: Economist, Financial Times.
È una destra, moderata per convenzione, che non si presenta mai col suo nome vero, a cui piace essere proteiforme.
Niente di più utile a questa destra è chiamare i suoi seguaci “tecnici”, “esperti” e contrapporli ai “politici”.
Ma non sono tecnici, e come potrebbero esserlo?!
Mario Draghi, ad esempio, solo negli ultimi 15 anni, ha gestito un potere conferitogli dalla politica, prima come governatore della Banca d’Italia e poi come presidente della Bce. Luoghi dai quali ha espresso la sua visione politica. La famosa lettera Draghi-Trichet al governo Berlusconi (5 agosto 2011) entrava nel dettaglio di scelte di politica del lavoro su licenziamenti e contratti. Non solo finanza pubblica. Per non parlare degli anni ‘90 di Draghi alla direzione generale del Tesoro: il suo discorso sulle privatizzazioni tenuto a bordo dello yacht Britannia, il 2 giugno 1992, è un must della politica di quegli anni.
In conclusione: siamo proprio sicuri che stia arrivando il governo dei tecnici?
Memos ha ospitato oggi un grande studioso della contemporaneità, uno dei principali rappresentanti dell’antropologia culturale.
E’ il professor Arjun Appadurai che insegna “Comunicazione e cultura dei Media” alla New York University.
Appadurai è uno dei maggiori studiosi della globalizzazione. L’antropologo statunitense di origine di indianavive a Berlino, dove Memos lo ha raggiunto. Un paio di settimane fa è uscito l’ultimo libro di Appadurai tradotto in italiano. Si intitola “Fallimento”ed è stato scritto insieme a Neta Alexander, studiosa di “Media e arte cinematografica”. Il libro è pubblicato da Raffaello Cortina Editore.
Nell’intervista a Memos il professor Appadurai parla di globalizzazione e Covid-19, di stato e responsabilità, di promesse e fallimenti
—————————————-
Professor Appadurai, sono passati sei mesi dall’inizio della pandemia. Il Covid-19 ha bloccato o rallentato la globalizzazione?
Poichè durante il Covid sono stati fortemente limitati viaggi, aeroporti, comunicazioni e specialmente movimenti di turisti, si pensa che sia stato schiacciato il bottone della pausa sulla globalizzazione e che allo stesso tempo vediamo una sorta di ritorno o di rinascita dello stato-nazione.
Penso che questa non sia un’analisi accurata, perché la globalizzazione continua a far parte del nostro mondo in molti modi.
Voglio dire che: la globalizzazione, come la rivoluzione industriale, come il capitalismo, è qualcosa di irreversibile.
Possiamo contestarli, ma non possiamo riportare indietro le lancette dell’orologio e andare in un mondo precedente la globalizzazione.
Vedo delle evidenze, delle prove, per le quali quasi tutti gli stati-nazione continuano a praticare i loro negoziati sul commercio globale, sul commercio degli armamenti che è molto attivo (in particolare in Francia, Stati Uniti, Arabia Saudita, India, China), un vero grande business.
Un altro esempio riguarda la finanza globale che controlla molto delle nostre vite e che non ha rallentato per niente.
Questo perché la finanza non si basa su relazioni faccia a faccia, ma soltanto su operazioni digitali. Potrei fare altri esempi come questi, ma voglio dire soltanto che tutto ciò mi convince del fatto che la globalizzazione stia realmente continuando ad un ritmo considerevole.
Allo stesso tempo ci sono alcuni aggiustamenti nel modo in cui lo stato-nazione ha a che fare con la globalizzazione. Perfino gli stati-nazione che sono sotto una grande pressione per chiudere i propri confini, mettere priorità sulla salute dei propri cittadini, tutti questi stati dipendono da collaborazioni e assistenza tecnica, scientifica, medica attraverso i confini.
Perfino al centro della campagna per sconfiggere il Covid ci sono processi di cooperazione e collaborazione internazionale e globale.
Quindi non penso che la globalizzazione sarà trasformata o rallentata o bloccata dal Covid-19.
Professor Appadurai, ascoltando la sua lista sembra che soprattutto la “parte cattiva della globalizzazione”(lo metto tra virgolette) sia ancora viva. Mi riferisco alla finanza, al commercio delle armi. Sembra così.
Alcune di queste cose ovviamente non sono buone, mi riferisco al commercio di armi, oppure al commercio globale di droga o al traffico di esseri umani, oppure alla sorveglianza cibernetica attraverso i confini. Queste sono cose molto, molto cattive.
Le cose buone, invece, non si sono fermate. Ad esempio la condivisione delle informazioni tra paesi, città, società su come affrontare l’emergenza Covid; oppure la condivisione delle conoscenze tecniche sui dati della malattia, oppure la collaborazione scientifica sui vaccini, sulle cure.
Queste sono cose che io chiamerei “la parte buona della globalizzazione”.
La globalizzazione ha sempre delle “parti oscure”, ma allo stesso tempo ha anche delle parti positive, perché fornisce una cornice entro la quale può svolgersi non solo la cooperazione e il commercio, ma il cosmopolitismo, l’espansione dell’immaginazione, tutto ciò per fornire un contrappunto alla xenofobia, al localismo.
In questo contesto la globalizzazione ha entrambe le parti. E in ogni dato momento una parte, una faccia, sembra avere una maggiore nostra attenzione. Oggi con il Covid siamo tutti molto preoccupati sui viaggi, sui migranti, sugli estranei. Ma allo stesso tempo vogliamo le nostre merci consegnate da Amazon, vogliamo restare in contatto con i nostri amici attraverso i social media…Si tratta di cose globali…L’intero genere umano vuole il meglio e chiede che siano altri ad occuparsi del peggio. Ma questa è un’utopia.
Tornerò più avanti sul tema della globalizzazione. Professor Appadurai, che tipo di società sono quelle dell’era Covid-19? A che tipo di trasformazioni sociali stiamo assistendo?
Di nuovo. Si può vedere il bicchiere mezzo pieno oppure mezzo vuoto.
La parte mezza vuota è ciò che sappiamo: il Covid ha prodotto una quantità enorme di ansia, timore, incertezza. Ha anche prodotto molta delusione, sia nei confronti dello stato che della scienza, per non aver trovato una soluzione, una soluzione magica.
Inoltre il Covid ha allontanato ciascuno di noi dalle abitudini sociali quotidiane: non possiamo vedere le persone faccia a faccia, non possiamo abbracciarle, baciarle, mangiare comodamente con loro. E’ una situazione che in alcuni posti sta migliorando, leggermente, ma non in altri.
Il costo maggiore è che il nostro principale modo di connetterci tra di noi è stato sospeso. Per coloro che tra di noi hanno tecnologie digitali, allora possono sopperire a questa mancanza. Ma per il 60-70% della popolazione mondiale la tecnologia digitale non è disponibile, e quindi vengono ributtati indietro nelle loro famiglie, nelle loro case, nei loro quartieri. Si tratta di costi sociali molto alti.
Questo è ciò che accade da una parte.
Ma dall’altra parte, se si guarda alla Germania, ma anche all’Italia, alla Lombardia, alla Corea, o a molti altri posti, si vede che lo stato non può fare tutto senza che le persone comuni si diano da fare, partecipino allo sforzo, ad esempio indossando le mascherine, mantenendo le distanze sociali, lavandosi le mani, evitando contatti non necessari con estranei.
Senza tutto ciò l’intero sforzo di combattere il Covid sarebbe fallito in modo disastroso, peggio di quanto successo finora.
E questo significa, ed è la migliora notizia dal punto di vista della società, che su base mondiale la società c’entra (society matters), che non siamo solo creature degli stati o dei mercati o delle élite delle grandi aziende, o degli imprenditori del settore hi-tech, ma che la nostra capacità quotidiana di cittadini ordinari c’entra, che si sia a Bombay o a Milano o in Marocco.
People matters, society matters.
Noi non viviamo in un mondo fatto solo di stati, aziende e mercati. Questa è una vera buona notizia per me!
Professor Appadurai, in uno dei suoi ultimi libri “Scommettere sulle parole” lei sostiene che il crack economico del 2008 è stato un fallimento (tenete a mente questa parola, ascoltatori/trici) del linguaggio. In che senso?
Nel libro “Scommettere sulle parole” sostengo alcune eterodosse argomentazioni dicendo che naturalmente ci sono altri fattori (regolamentazioni deboli, investitori eccessivamente speculativi, una cura inadeguata della sicurezza e delle preoccupazioni degli investitori ordinari), ci sono molti fattori ma sostengo che un fattore– del quale sono rimasto affascinato – è il linguaggio.
Per me il linguaggio è importante perché è lo strumento principale attraverso il quale funzionano i mercati finanziari globali, ad esempio i derivati.
I derivati sono contratti tra traders che lavorano per banche o fondi speculativi. Sono contratti basati sul valore potenziale di qualcosa nel futuro.
Immagina qualcosa che esiste oggi e che ha un valore futuro: io e te facciamo un accordo perché abbiamo idee diverse su quale sarà quel valore in futuro. E’ una scommessa. Ma quando troviamo l’accordo allora si tratta di un contratto.
E’ semplicemente un accordo secondo il quale se accade“A” io ti pagherò, se succede “B” tu mi pagherai.
E’ un contratto scritto, ma prima era orale.
E questo è il modo in cui funziona questo enorme mercato multi-miliardario, attraverso qualcuno che dice a qualcun’altro: “bene, l’accordo è fatto!”.
E’ un atto linguistico, è una promessa, non richiede alcunchè di materiale da scambiarsi a mano, eccetto ciò su cui hai scommesso.
Mi scusi professor Appadurai, ciò significa che il collasso finanziario del 2008 è stato il collasso di questo linguaggio di cui lei parla?
Sì, è il collasso di quegli strumenti che avevano basi linguistiche, resi possibili da promesse costruite su basi molto piccole di beni reali, per esempio le case.
I derivati permettono che una normale casa diventi la base di una serie senza fine di transazioni sul futuro (nella forma di contratti, promesse ed altre forme linguistiche). Ma le case erano limitate, non potevano sopportare il peso di questa montagna di promesse, perchè il valore della case non sale all’infinito.
Tutti lo sapevano, ma pensavano che il crack sarebbe accaduto dopo aver incassato i guadagni.
Un giorno la musica si fermò. Era il 2008. La montagna di promesse si frantumò. Il governo americano dovette intervenire usando denaro pubblico per riempire il buco e ripristinare il mercato finanziario.
Sostenevano che senza il mercato finanziario l’intero sistema capitalistico sarebbe fallito e, fallendo, l’intero pianeta si sarebbe frantumato.
E’ ovvio che queste sono idee esagerate, ma va detto che erano le loro ragioni per salvare il sistema nel quale il linguaggio assume la forma di contratto, promesse (scritte e orali).
Tutto ciò non è secondario, ma è la caratteristica principale dell’assumere rischi di un futuro sconosciuto e monetizzarli.
Ecco dove sta il fallimento del linguaggio.
Il fallimento della finanza può essere visto come fallimento del linguaggio.
Vorrei restare sul tema del linguaggio, professor Appadurai. A proposito del Covid-19 vorrei sapere se lei lo considera un fallimento del linguaggio sociale a vantaggio del linguaggio della scienza biologica. In questi mesi abbiamo dato ascolto principalmente a virologi, epidemiologi, esperti di farmaceutica e abbiamo ascoltato meno gli architetti, gli urbanisti, i designers, etc. C’è stato un fallimento di un linguaggio sociale rispetto ad una lingua bio-scientifica?
Esatto.
Direi che sono d’accordo con lei. E’ un’osservazione molto interessante.
Direi che molti tra i più importanti pensatori in Europa, come Giorgio Agàmben, non sono stati in grado di trasformare le loro idee in una sorta di nuovo pensiero su come affrontare il Covid, su cosa significa, su cosa ci succederà.
Loro guardano il mondo ancora con gli occhi dei decenni passati, delle generazioni precedenti, dei modi di pensare precedenti.
Che si tratti di Agàmben o Zizek, o di altri di altri pensatori europei di primo piano, oppure di pensatori americani come Judith Butler e altri, tutti non sono stati in grado di fornire quel “linguaggio sociale” di cui lei parla e che servirebbe a portarci avanti.
Quindi, lei ha abbastanza ragione.
Come conseguenza abbiamo avuto una notevole esplosione di pronunciamenti scientifici, dibattiti scientifici e informazioni scientifiche che sono state scaricate sulle persone comuni con grande peso, grande velocità e autorità.
Ho scritto altrove di una particolare metrica, numeri, grafici di una enorme complessità che ci hanno sempre affascinati, che non siamo mai stati capaci di comprendere e che non ci ha mai messi d’accordo.
C’è dunque questo travolgente ammontare di cifre scientificamente basate su dati che noi non siamo attrezzati a comprendere.
Di fronte a noi c’è un problema di alfabetizzazione.
Quindi, da un lato sono d’accordo che la scienza contemporanea sia stata la risorsa principale per combattere direttamente il virus come un oggetto fisico.
Questo però non significa che noi comprendiamo tutto ciò che ci viene detto, perchè non siamo istruiti abbastanza per comprendere numeri di tale complessità. Quasi nessuno lo è. Siamo ancora meno attrezzati a comprendere quando ci sono dibattiti fra due scienziati. Come potrò mai esprimere un giudizio quando entrambi quegli scienziati hanno grafici e dati di una tale enorme complessità?
Questo è un grosso problema, l’alfabetizzazione, digitale e scientifica. L’alfabetizzazione su probabilità, proiezioni, numeri. La maggior parte delle persone non ce l’ha.
Dall’altro latoc’è quanto lei indicava, cioè che c’è stata una sorte di “vuoto” dalla parte di ciò che lei ha chiamato “linguaggio sociale” e che io chiamerei in altro modo.
In un mio vecchio libro (“Il futuro come fatto culturale”) ho proposto un contrasto tra “etica della probabilità” e “etica della possibilità”.
Probabilità è la parola nella quale viviamo: numeri, rischi, incertezza, probabilità, proiezioni…si possono usare migliaia di parole, ma sono tutte dalla parte dell’etica della probabilità.
Dall’altra parte abbiamo bisogno di qualcosa di forte, dalla parte dell’etica della possibilità, che è l’etica della speranza, dell’aspirazione, desiderio, immaginazione, ispirazione.
Sono d’accordo con lei completamente nel dire che abbiamo un fallimento relativo da questa parte, cioè dalla parte del linguaggio sociale o del linguaggio delle possibilità che è stato schiacciato dal discorso della probabilità, penso al linguaggio delle scienze mediche e delle scienze correlate.
Noi abbiamo bisogno di queste scienze, ma abbiamo bisogno di un dialogo tra questa lingua e ciò che lei chiama linguaggio sociale. Altrimenti l’intero sforzo diventa unilaterale e noi diventiamo una sorta di consumatori passivi di dati numerici che non comprendiamo; dobbiamo dare la nostra vita a qualcuno che ci dica cosa fare: indossare o meno una mascherina; stare distanti 6 metri e non cinque. Dobbiamo assecondare queste situazioni e ciò non è molto positivo per vite democratiche in salute.
Quindi, sono d’accordo con lei: c’è un fallimento dal lato del linguaggio sociale.
L’idea di futuro che emerge dai suoi studi è un’idea di futuro sempre correlata ad un rischio. “Un futuro su cui possiamo scommettere”, diceva prima. Un meccanismo dei mercati finanziari. Il futuro è solo quel rischio su cui possiamo scommettere o è anche qualcosa d’altro?
Per me è importante che sia anche qualcosa d’altro.
Prima dicevo che trasformare il futuro in un rischio, e rendere quel rischio monetizzabile, e poi avere l’1% delle persone che ottiene denaro migliaia di volte superiore al resto delle altre persone, questa è la situazione in cui il futuro diventa solo qualcosa di legato al rischio.
Allo stesso tempo, e in modo simile al caso del Covid, il futuro diventa solamente una proiezione numerica.
Ciò per me non è buono. E’ ciò che il grande Ulrich Beck ha previsto quando disse che stavamo entrando a livello globale in una “società del rischio”, dove ogni cosa era un rischio, dove le cose che possono accadere possono essere previste e gestite.
Certo Beck non aveva parlato tanto di finanza, ma se oggi analizzassimo la finanza vedremmo che ciò (il rischio) fa parte anche della finanza.
Nel mio libro “Banking on words”, ma anche nel mio libro precedente sul futuro (“Il futuro come fatto culturale”, ndr) ho sempre indicato una critica potenziale a questo tipo di resa completa del futuro a favore di uno scenario di rischio, di una strategia del rischio.
La verità è che – perfino in relazione al rischio – abbiamo dimenticato l’altra parte, che è l’incertezza.
La gente vive molte incertezze. Non dovremmo vergognarci di dire “sono incerto per qualcosa”. Ma dal minuto in cui iniziamo a porre la questione in termini probabilistici, lì vuole dire che abbiamo già cominciato a giocare il gioco del rischio.
Io sono un sostenitore della ricerca di nuovi linguaggi per il futuro, per parlare del futuro, per immaginare il futuro, per discutere nel futuro.
Direi molto semplicemente, e in termini un po’ all’antica, che abbiamo bisogno di prendere in considerazione la qualità tanto quanto la quantità.
Perciò abbiamo bisogno di bilanciare i numeri con altre dimensioni di ciò che è desiderabile nel nostro futuro possibile.
In passato c’è stata un’arena e un discorso che fecero quanto dicevo, ma per molti di noi che oggi sono accademici, o giornalisti come lei, o studiosi o critici, politici…tutto ciò è diventato inadeguato. Questo è il discorso della religione.
La religione in passato parlava di qualità del futuro: redenzione, sopravvivenza, salvezza.
Ma da quando abbiamo perso quel vocabolario, ora la maggior parte di noi ha bisogno di altri vocabolari che possano aiutarci – come cittadini che sono sensibili all’eguaglianza, alla giustizia, libertà e inclusione – a trovare modi per parlare della qualità della nostra vita sociale, delle nostre parole sociali, del nostro paese e del nostro mondo, incluso il pianeta.
Ma se noi ricadiamo sempre sui numeri (quanto si sciolgono i ghiacciai, quanto cresce il livello dei fiumi) c’è un limite a ciò che possiamo fare.
Questo non dovrebbe essere un dialogo sull’utopia, sulle città perfette, sui trasporti perfetti, ma su qualcosa che è attorno a noi, ma non ancora completamente disponibile.
L’espressione “not yet”, non ancora, è quella che ricavo dal filosofo Ernest Bloch, i grandi studi sui principi della speranza.
Bloch usa questa espressione “non ancora”, che significa: qualcosa che è qui, ma non ancora pienamente sviluppata.
Ecco ciò di cui abbiamo bisogno, non l’utopia perfetta, perchè prima di tutto è impossibile e poi perchè diventa velocemente una idea fascista: ci dai tutto, ci dai la tua libertà, e noi ti daremo la perfezione! E’ sempre stata una falsa promessa.
Dunque, ciò è quello che io intendo per qualità e che lei prima definiva in termini di “parte sociale” in opposizione ad una “parte scientifica” del linguaggio.
Tutto ciò è coerente e connesso con i miei desideri e le mie speranze.Troveremo lingue in cui esperti e persone ordinarie possano conversare non tanto attraverso discorsi di alto livello su numeri, grafici, statistiche o finanza, ma attraverso aspetti qualitativi di questioni come il senso della vita, che cosa significa essere felici, cosa significa essere in salute.
Ho usato il termine “social health” (salute sociale) in contrasto al termine “medical health” (salute medica).
La “salute medica” è importante.
Ma la “salute sociale” richiede un altro tipo di attenzione alle relazioni, alla solidarietà, alle reti, che non sta sotto il titolo delle probabilità, dei numeri e delle statistiche.
Fallimento è il titolo del suo ultimo libro. Quando parla di fallimento lei si riferisce a due mondi, Wall Street e Silicon Valley, che “entrambi promuovono l’illusione che la scarsità possa e debba essere eliminata nell’era del flusso senza soluzione di continuità“. Qual è il fallimento che lei analizza, professor Appadurai?
Come sa ho scritto questo libro insieme alla mia coautrice e splendida studiosa Neta Alexander che concentra l’attenzione sul mondo digitale che emerge dalla Silicon Valley.
Poichè io ho studiato di più il mondo della finanza, abbiamo messo insieme le nostre conoscenze e siamo arrivati alla seguente conclusione: uno dei flussi più profondi di questi due regimi, o di queste due forze che arrivano da Silicon Valley e da Wall Street, è che entrambi questi regimi negano qualunque tipo di limite su ciò che possiamo acquistare, di cui possiamo godere, su quanto possiamo essere ricchi….ogni cosa è possibile!
Poi succede che entriamo nei mercati finanziari o nel mondo di Netflix o di Twitter o degli incontri digitali, e diventiamo costantemente o degli sfruttati e impoveriti oppure dei delusi.
In altre parole, le cose buone non accadono dopo tutte le promesse che ogni cosa è possibile, ma il fallimento ci viene trasmesso. Questa cosa è fallita perchè non hai fatto così, perchè non avevi abbastanza banda per connetterti, perchè non hai pulito il computer, perchè non hai imparato questa lingua. Non viene mai detto che la banca o Netflix sono i responsabili.
E poi noi siamo considerati i grimaldelli che tentano di riparare. Ma il processo di aggiustamento non finisce mai. Nel frattempo tutti i fallimenti sono attribuiti ai clienti, ai consumatori, ai cittadini.
E tutte le grandi promesse sono tenute per le persone che controllano le tecnologie hi-tech, le banche, i business digitali.
Loro sono visti come degli altiprelati senza macchia e noi come dei poveri peccatori ai quali è destinato il fallimento.
Noi siamo la causa di ogni fallimento, e loro ci portano tutte le promesse di successo.
Questo è quanto volevamo cogliere nel libro. Spero abbia ricevuto degli elementi di ciò che ho in mente.
Sono trascorsi otto mesi dal primo caso di positività al virus Sars-Cov-2 in Italia. Meno di un anno. Ma il tempo delle emozioni segna un’altra ora. Le lancette del nostro orologio sono state spinte più avanti.
La pandemia ha allungato i tempi e ha diviso in due il territorio della nostra vita quotidiana: in un prima e un dopo Covid-19. Troppi i lutti, le sofferenze, gli smarrimenti, gli interrogativi, per stare tutti dentro una manciata di mesi. Otto.
Memos nell’ultima settimana ha girato ai suoi ospiti una parte di quegli interrogativi.
Che cosa è accaduto in questi otto mesi?
Quanta e quale paura abbiamo provato? Nel momento più acuto della crisi la stanchezza sembra aver preso il sopravvento. Il logoramento fisico e psicologico è stato anche lui contagioso, è diventato un’esperienza condivisa tra molti (Memos ne ha parlato mercoledì 21 ottobre con la psicologa sociale Chiara Volpato e lo storico della medicina Gilberto Corbellini).
Siamo andati a guardare anche nel futuro, nell’idea che abbiamo di ciò che accadrà. Tra semplici speranze e più solide aspettative. Che cosa sarà della pandemia? Quando arriverà il vaccino? (ad aiutarci sono stati la biologa Stefania Salmaso e l’epidemiologo Paolo Vineis, giovedì 22 ottobre).
In questi mesi, per combattere la pandemia ci siamo chiesti in continuazione cosa dobbiamo fare, come individui, cittadini e cittadine, parti di una comunità. La nostra responsabilità è stata sollecitata a ripetizione. Per adempiere agli obblighi, ai divieti. E la nostra libertà? C’è chi l’ha maltrattata pensando fosse un esercizio di menefreghismo, di egoismo. La mascherina è stata utilizzata da questi come il capro espiatorio delle loro frustrazioni. La libertà, invece, vive nella relazione con l’altro, nell’altro vede un suo limite positivo e bandisce il “me ne frego” (lungo questo percorso Memos è stato accompagnato martedì 20 ottobre dalla filosofa Giorgia Serughetti e dalla teorica della politica Nadia Urbinati).
E di fronte al pericolo della pandemia, al contagio che si diffonde, come reagiamo? Come si difende la salute minacciata? Perchè gli argini smantellati della sanità territoriale, riconosciuti quasi da tutti come essenziali, non vengono ricostruiti? E’ inevitabile che provvedimenti radicali anti-contagio (come il blocco generalizzato degli spostamenti) si abbattano sul sistema produttivo? (due economisti, Enza Caruso e Andrea Roventini, venerdì 23 ottobre hanno risposto a queste domande di Memos).
Responsabilità e Libertà, Paura e Stanchezza, Speranze e Aspettative, Salute ed Economia.
“Il Pd accetti di sciogliersi e dia vita ad una costituente di sinistra”. E’ un passaggio dell’intervista a Rosy Bindi, ospite oggi a Memos. Rosy Bindi è stata la presidente della Commissione antimafia nella scorsa legislatura. Con lei oltre che del Pd, che resta ancora il suo partito nonostante la decisione di non ricandidarsi, abbiamo parlato del nuovo governo M5S-Lega: “le scelte di questo esecutivo sull’immigrazione sono contro la Costituzione”. Nel corso dell’intervista Bindi ha raccontato del suo impegno attuale a favore della sanità pubblica, a 40 anni dalla legge che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale. La parte conclusiva è dedicata invece ad alcune sue considerazioni sulla mafia in Italia, i suoi intrecci con la politica e la necessità di conoscerla e studiarla per combatterla.
Con la puntata di oggi si chiude questa quarta stagione di Memos. Grazie a tutti i quasi centonovanta ospiti che hanno lasciato una loro traccia in questa trasmissione e soprattutto grazie a tutti voi per esserci stati ascoltandola. Buona estate!!
“Provare un sentimento di vergogna per la sconfitta della sinistra. Da qui dobbiamo ripartire”, racconta a MemosPaola Natalicchio, giornalista e scrittrice, ex sindaca di Molfetta a capo di una giunta di centrosinistra. “Bisogna ripartire dai lati del territorio”, non dal centro. Casi emblematici, anche se diversissimi tra loro sono la Napoli di De Magistris e la Milano, prima di Pisapia e oggi di Sala.
Rischio “brexit” in Germania? La leader della Spd Andrea Nahles ha lanciato l’allarme. Nahles si è scagliata contro la destra bavarese del ministro dell’interno Horst Seehofer (suo alleato di governo della Csu) e del presidente della Baviera Markus Soeder (anche lui dell’ala conservatrice della Dc di Angela Merkel). “Stanno portando il paese verso una brexit tedesca”, ha detto la leader socialdemocratica due giorni fa ad una convention di partito a Bochum. Andrea Nahles accusa i democristiani bavaresi di forzare la mano del governo di Berlino con la richiesta di politiche ancora più restrittive sull’immigrazione. E’ un rischio reale? Perchè la leader Spd ha lanciato il suo allarme? Che cosa tiene insieme la destra conservatrice tedesca con la Lega di Salvini?
A Memos il giornalista Michael Braun, corrispondente da Roma di TagesZeitung, quotidiano tedesco; e la politologa Nadia Urbinati della Columbia University di New York e dell’università Bocconi di Milano.
Dipende da noi. E’ stato il titolo di un incontro che si è svolto giovedì scorso, 21 giugno, alla Camera del Lavoro di Milano. “Dipende da noi e dalla politica la lotta alle organizzazioni mafiose”, ha detto il magistrato Nino Di Matteo, membro della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo e fino a due mesi fa uno dei pubblici ministeri al processo di Palermo sulla trattativa stato-mafia. Di Matteo è stato ospite dell’incontro alla Camera del Lavoro insieme al suo collega della Dna e della procura di Palermo Francesco Del Bene. Nel ruolo di intervistatore dei due magistrati il professor Nando dalla Chiesa, sociologo e scrittore. L’incontro è stato organizzato da Wikimafia (la libera enciclopedia online contro le mafie) in collaborazione con la Cgil.
A Memos ne abbiamo trasmesso una sintesi. La versione integrale è disponibile sul canale YouTube di Wikimafia
Il fisco del cambiamento. Dual tax più condono fiscale. E’ il progetto del governo Lega-M5S. Memos ne ha parlato con l’economista Maria Cecilia Guerra, ex sottosegretaria e viceministra del lavoro nei governi Monti e Letta, già parlamentare nella scorsa legislatura con il gruppo di Mdp. Secondo la professoressa Guerra il nuovo sistema fiscale con due aliquote rappresenterà un gigantesco trasferimento di risorse a favore di chi guadagna di più. Inoltre, il condono – con la chiusura di tutte le cartelle esattoriali sotto i 100 mila euro, come ha annunciato ieri Salvini – sarà di fatto “generalizzato”, sostiene Maria Cecilia Guerra ricordando che le cartelle sotto i 100 mila euro rappresentano l’86-87% del totale. Di fronte a Salvini che dice “dobbiamo liberare milioni di italiani” la professoressa Guerra risponde: “Non possiamo usare le persone che sono in vera difficoltà economica come scudi umani per andare incontro, invece, a persone che sono dei veri evasori”.